Puntuale, ogni anno, arriva il momento di fare una riflessione sulla questione di genere, sul contributo delle donne nel mondo del lavoro e nella società. Nel 1999, Kathy Matsui, economista californiana di origini giapponesi, analista per la Goldman Sachs, elaborò una teoria, che chiamò Womenomics (donne ed economie, in un’unica parola), per indicare l’unione virtuosa delle donne e del mercato: maggiore è il numero di donne attive nel mercato del lavoro, maggiore è la crescita economica di quel Paese.
Il World Economic Forum ogni anno effettua un rapporto sul tasso di disuguaglianza di genere nei diversi paesi, il Global Gender Gap Report. Nell’ultima edizione (2015), l’Italia ha avuto un piazzamento migliore rispetto agli anni precedenti, guadagnandosi la 41esima posizione su 145 nazioni. Un traguardo mai raggiunto prima, con un guadagno di ben 28 posizioni rispetto all’edizione del 2006.
C’è da rallegrarsi? Non molto, perché i numeri non sempre rendono giustizia alla fotografia di un Paese. Il contesto italiano è ancora molto lontano dalla teoria “donneconomie”: il tasso di occupazione femminile è ancora basso, le imprese femminili hanno maggiori difficoltà (a partire dall’accesso al credito), a parità di responsabilità sono remunerate meno, molte donne rinunciano al lavoro per la famiglia, ai vertici delle grandi aziende (private e pubbliche) siedono prevalentemente uomini.
Eppure il Global Gender Gap Report parla chiaro: un miglioramento c’è stato. Ma sulla base di quali indici? Uno di questi riguarda la politica. Nel sotto indice che prende in considerazione la partecipazione delle donne alla vita politica italiana, dal 37esimo posto l’Italia è risalita al 24esimo. Conta la percentuale di donne in Parlamento (31,4%, la decima in Europa) e la percentuale di ministre (50% se si tiene conto del governo presentato da Matteo Renzi nel febbraio 2014, anno a cui fa riferimento il Report).
Vanno decisamente peggio, invece, i dati sull’occupazione femminile, che in Italia resta inchiodata al 47,3%, contro il 65,3% di quella maschile; e con un gap salariale di 7,3 punti percentuali, e punte anche del 25% fra professionisti e manager. La percentuale di manager donne resta il 15,1% del totale (25% in Europa). Senza contare che i contratti delle italiane sono più spesso flessibili e part time rispetto a quelli degli uomini.
A poco, quindi, può bastare la crescita della presenza femminile nei cda delle società quotate e pubbliche grazie alla legge che impone le quote di genere. Le donne che siedono nei board, secondo dati Consob 2015, sono solo il 26,5%, con una disoccupazione femminile di oltre il 13%. Nel Meridione, solo una giovane su due lavora.